RACCONTO FIORENTINO

“l’Italia delle 220 diocesi e delle 26.000 parrocchie”

di Ottavio PIROVANO

19.11.2015 – Quando si parla del paese Italia di solito si evocano alcuni simboli che dicono la ricchezza e la varietà della nostra nazione: l’Italia è rappresentata a volte con le 100 città, con gli 8000 comuni, con le piccole imprese, con l’agroalimentare, il tessile e così via. È una rappresentazione plastica dell’Italia, che non sta in una definizione unica e stringata, ma nel racconto del bel paese. Ecco, quello che vorrei tentare è un racconto dell’Italia che ho visto a Firenze, un’Italia che per 5 giorni si è fermata e si è interrogata sull’umanità che si desidera servire: l’Italia delle 220 diocesi e delle 26.000 parrocchie. Ero anch’io a Firenze, tra i 2400 delegati delle varie diocesi italiane e vorrei far sentire il profumo del convegno, la ricchezza nata nelle relazioni formali e informali, nei lavori di gruppo, nei momenti di ascolto delle ricchezze culturali. Sul sito www.firenze2015.it trovate tutto il materiale ufficiale del convegno, da cui non si può prescindere per comprendere cosa è avvenuto: almeno una volta, vi raccomando di “vedere” le relazioni e gli interventi, più espressivi e comunicativamente completi rispetto al testo scritto. Ma nel sito non si trova il profumo del convegno, fatto di sensazioni, sguardi, reazioni immediate…

Partiamo allora dall’inizio del convegno: noi delegati siamo stati suddivisi in 5 punti della città, presso 5 basiliche che rappresentano il cuore credente di Firenze, da cui siamo partiti alla volta del Duomo; sguardi incuriositi alla vista di questi 5 cortei che in un pomeriggio feriale sfilavano silenziosamente per la città, sguardi indispettiti per il rallentamento del traffico, i soliti giapponesi che non hanno perso l’occasione per fotografarci… insomma, è stato un cammino nella città anche un po’ provocatorio, ma anche per noi delegati è stato provocante passare nella quotidianità, attraverso la cultura che esprime ogni via di Firenze: cosa abbiamo da dire all’uomo di oggi, alla storia, alla cultura, alla sofferenza, alla gioia? In Duomo, non prima di esser passati nel Battistero, simbolo di uno sguardo diverso da avere sulla storia, quello della Pasqua di Gesù che ha già definito l’esito del mondo, si è aperto il convegno con la preghiera. Qui i segni parlano davvero più delle parole: il cardinale di Firenze ha presieduto la preghiera, non accorgendosi che la sua veste, un piviale sorretto da due diaconi, non aveva nulla a che fare con il desiderio di essere una chiesa aperta al dialogo con il mondo di oggi. Vi assicuro che gli sguardi immediati e i commenti di tanti delegati erano tra lo sbigottito e il rassegnato: una chiesa così non dice più nulla, una chiesa così dice ma non si accorge di non essere ascoltata e di creare distanze a volte incolmabili. La sensazione è stata confermata dalla preghiera del vespro, solenne, cantato, spesso in latino: una liturgia per addetti ai lavori! C’è stato anche un momento tragicomico: si è cantato per tre volte il canto del rito della luce (che comprendeva ritornello e tre strofe!) perché non riuscivano ad accendere tutte le candele, forse un segno, un richiamo che quanto si stava celebrando non era gradito…

Sembrerò irriverente, ma mercoledì mattina, all’apertura dei lavori mons. Galantino, segretario della CEI, ha scherzato parecchio sulle candele che non volevano accendersi!
Il primo giorno si è dunque concluso con un po’ di delusione: già la percezione è che questi convegni non servano a molto, per usare un eufemismo, figuriamoci se si sbaglia clamorosamente anche la celebrazione iniziale. A raddrizzare un po’ le sorti, a conclusione del vespro ci ha pensato mons. Nosiglia, vescovo di Torino, presidente del comitato organizzatore, con la sua introduzione ai lavori, in cui si auspicava un lavoro sinodale per giungere a delle conclusioni condivise tra gerarchia e popolo di Dio; un discorso ampio e con interessanti, ma lungo, forse con il vizio di dover dire tutto subito: in molti ci siamo chiesti cosa si poteva dire di più. Ci voleva un colpo di scena per raddrizzare una falsa partenza: tenetevi forte perché di colpi di scena ce ne sono stati parecchi!
La speranza, anche perché legata ad una novità nei convegni della Chiesa italiana, per  i delegati, sia vescovi che preti, che laici, era riposta per la giornata di martedì: arriva il Papa, all’inizio del convegno, novità assoluta. Solitamente arrivava alla fine e il discorso era certamente autorevole, ma non sui lavori del convegno. Francesco ha invece chiesto di venire all’inizio del convegno (primo colpo di scena, già nella fase preparatoria, quello che risulterà decisivo) ed ora tutti gli sguardi e le orecchie sono per lui. Se leggete il suo discorso capirete da soli quale cambiamento ha saputo produrre. Ma andiamo con ordine. Il Duomo ha chiuso le porte alle 8.30 del mattino, dentro tutti i delegati, vediamo insieme le immagini del Papa a Prato, sull’app dell’evento arriva il discorso fatto alla cittadinanza poco lontana: le parole di Francesco, come sempre, colpiscono per la semplicità e la schiettezza, e soprattutto per la spinta ad Uscire, verbo usato più volte a Prato. Quando alle 10 arriva in Duomo succede di tutto: il calore con cui viene accolto, il tentativo dei delegati di regalarsi una stretta di mano sono amplificati dai molti schermi presenti in Duomo per permettere a tutti di vedere gli sguardi di Francesco nei minimi particolari. Viene ufficialmente salutato dal card. Bagnasco, un ultimo sussulto di una Chiesa depositaria unica della verità (leggete anche il suo saluto…), ma anche lui verrà contagiato e, colpo di scena finale, la relazione conclusiva del convegno vi sorprenderà!
Tre colpi di scena, in progressione, introducono l’incontro: testimoniano il loro cammino una giovane che ha ricevuto il battesimo da poco, dopo un cammino di catecumenato; una coppia che, per entrambi i coniugi, ha alle spalle un fallimento matrimoniale e un cammino di riavvicinamento alla comunità cristiana; infine, la testimonianza più coinvolgente, più emozionante: un giovane prete della chiesa fiorentina che nel 1992, appena 16enne, è giunto dall’Albania su un gommone, e giunto a Firenze è stato accolto da un prete fiorentino che lo ha allevato come un padre, lo ha accompagnato al Battesimo, lo ha fatto studiare fino poi a scoprire la scelta di consacrazione. Anche il Papa ha pianto, commosso, nell’ascoltare questa toccante testimonianza, e con lui molti nel Duomo!

Dopo aver scrutato la volta del Duomo, con uno sguardo quasi estatico, il Papa ha iniziato il suo discorso: alla fine risulterà lungo il doppio rispetto ai suoi discorsi, tanto che ad un certo punto ha alzato gli occhi e ci ha avvisato: “Mancano ancora due cartelle!”. Inizia proprio commentando l’immagine della volta: Gesù risorto che si appresta a giudicare il mondo, che rifiuta la spada che un angelo gli sta porgendo e mostra invece i segni della passione: ecco il giudizio come lo realizza Gesù! Umiltà, disinteresse, beatitudine: ecco l’immagine della Chiesa che vuole Francesco, ma senza parole di condanna e senza parole che evocano nemici esterni, come a dire che ciò che deve chiedere il nostro sforzo maggiore è l’annuncio della misericordia e non la condanna. Sembra di sentire i discorsi di Giovanni XXIII e Paolo VI che a più riprese, all’inizio e alla fine del Concilio Vaticano II, hanno detto che la Chiesa vuole essere compagna di viaggio, non vuole più condannare ma usare la medicina della misericordia. Si respira! Si sogna! Francesco ci fa immaginare una chiesa bella, credibile, in cammino, nella compagnia dell’umanità, disposta a creare ponti con gli uomini di buona volontà. Poi Francesco segnala due peccati che bisogna evitare (“Alla curia ne avevo indicati 12…”, una battuta che i delegati accolgono con un lungo applauso e molte risate… con Francesco le formalità vengono superate): confidare troppo nelle strutture e nell’attivismo fine a se stesso, senza ascolto dell’altro; fissare in una conoscenza astratta la nostra fede, senza incarnazione, senza sporcarsi le mani con la concretezza della storia. E poi la conclusione: “Non ho scelte concrete da proporre, queste spettano a voi. Vi chiedo solo tenere come riferimento l’Evangeli Gaudium”.  L’ennesimo colpo di scena. Ecco, ora il convegno può partire decisamente! Ma il Papa non ha finito di sorprendere: alla messa allo stadio commenta il brano di vangelo in cui Gesù chiede la gente cosa dice di lui e poi la domanda la rivolge ai discepoli; la sorpresa sta nel fatto che Francesco si sofferma parecchio sulla prima domanda: Gesù è interessato a cosa pensa la gente, è attento a quanto suscita il suo discorso, ai desideri e agli sguardi di tutti quelli che ha incrociato. Insomma, il discorso chiude una giornata in cui il Papa ci invita ad ascoltare, a discernere e a scegliere senza paura di sbagliare: i continui richiami alle immagini di chiesa ormai divenute abituali, ospedale da campo, incidentata perché sta in strada, mettono nel cuore di tutti i delegati la voglia di iniziare, fin da domani al convegno, nel momento dei lavori di gruppo, a sperimentare cosa succede se ci ascolta reciprocamente. Che facce ci sono dopo questa giornata? La maggior parte ci sono facce contente, serene, desiderose di aprire il confronto; altre sono facce un po’ stranite, contente, ma poi è come se avessero stampata sulla bocca la domanda: “Ma cosa dobbiamo fare?”; e poi ci sono le facce, è giusto dirlo, di chi non capisce dove il Papa ci vuole condurre e mostrano preoccupazione per una chiesa con poche certezze. La sensazione è che forse bisognerebbe prendere in maggior considerazione queste ultime, e dirsi onestamente: “Caro Francesco, non capiamo!”, perché poi, nei corridoi si intercettano alcuni discorsi preoccupati e altri decisamente contro le aperture, anzi, il cambiamento di paradigma del Papa: diciamocelo, quando il Papa parla di popolo di Dio, non sappiamo cosa vuol dire, eppure all’inizio della Lumen Gentium la Chiesa viene definita a partire dal popolo di Dio e non dalla gerarchia, ovvero come corpo unitario e non dalla definizione dei ruoli. Alla fine un altro episodio confermerà questa sensazione.

La giornata non è finita, si entra nei lavori delle 5 vie scelte per declinare il tema del convegno “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare. Una breve tavola rotonda introduce i 5 verbi, alla fine di una giornata così intensa poteva rischiare di essere una forzatura. Invece la brillantezza della conduttrice, la sinteticità e la chiarezza dei 5 intervistati, l’entusiasmo e la passione con cui tutti hanno raccontato e presentato la loro via hanno chiuso una giornata memorabile.

Mercoledì. Avvio dei lavori di gruppo. Non ci sono relazioni introduttive, solo due interventi che cercano di dare un quadro sociologico del nostro tempo (Magatti) e quale teologia è utile oggi: il primo molto ricco purtroppo letto con molta fretta, il secondo  è stata più una esortazione spirituale; senza giudicare i due soggetti, sono interventi che probabilmente lasceranno il segno dopo il convegno, l’intervento del Papa rimane il punto di riferimento. Iniziamo i lavori di gruppo, siamo suddivisi in aule che contengono 100 persone che siedono in 10 tavoli da 10 persone ciascuno, in ciascun tavolo c’è un facilitatore che raccoglie gli interventi e detta i tempi del lavoro. Io ho scelto la via dell’educare, le domande sono su alcune buone pratiche, su problemi riscontrati e su alcune proposte concrete; all’inizio viene chiesto a tutti di scegliere un brano di vangelo in cui Gesù compare come educatore: ognuno sceglie un brano diverso, sorprendente, anche perché ciò rivela una ricchezza di sguardi che diventa dono per tutti e in effetti tutti sentiamo di aver ricevuto parecchio da questo primo giro. Il tavolo è composto da me, un laico di Pordenone, una giovane adulto di Agrigento, una signora di Alessandria, uno di Reggio Calabria (che poi scoprirò che ha insegnato per anni nella bergamasca), un vescovo pugliese, un sacerdote bresciano, uno campano, ed una suore della provincia laziale e il facilitatore originario di Enna, docente di filosofia a Roma: una ricchezza di sguardi, di saggezza dovuta all’età e all’esperienza. Posso dire di aver incontrato una chiesa vivace, soprattutto al sud, che si è lasciata seriamente interrogare dai molti problemi dovuti alle mafie, agli sbarchi, al contesto sociale che non sa dare speranza, una chiesa che ha saputo interagire con le istituzioni, soprattutto con la scuola. Nel pomeriggio di mercoledì e nella mattina di giovedì non c’è stato un momento di stanchezza nel gruppo, è sempre prevalsa la voglia di raccontarsi e di studiare insieme quali proposte volevamo offrire: ce ne chiedevano tre, siamo partiti da otto, il processo con cui abbiamo raggiunto il numero richiesto è stato molto bello, non è facile tra persone che non si conoscono scegliere le parole per esprimere un concetto, a volte lo stesso termine lo si usa in modi differenti, eppure alla fine con discernimento, abbiamo discusso e abbiamo scelto. Un lavoro sinodale interessante, che sarà ripreso nelle conclusioni di tutti i gruppi e di tutte le vie. Le conclusioni di ciascun tavolo sono passate ad un moderatore dell’aula che ha prodotto una sintesi, che poi ha confrontato con le sintesi della medesima via per arrivare ad una relazione conclusiva. Vi assicuro che l’attenzione alle relazioni conclusive del convegno era altissima, perché c’era la pretesa di tutti i delegati di veder riconosciuto il proprio lavoro: tra poco scoprirete se sono state apprezzate!

Nel pomeriggio di giovedì incontriamo la città di Firenze, divisi a gruppi: io ho scelto il racconto dell’esperienza di don Lorenzo Milani; andiamo nella chiesa dove è sepolto mons. Bensi, amico, consigliere e a volte protagonista di scontri con don Milani. Qui i colpi di scena sono tanti: il viaggio dai padiglioni della Fiera di Firenze che ospita il convegno alla chiesa lo faccio con l’amico del mio tavolo di Reggio Calabria. È in questo tragitto che scopro che ha insegnato nella bergamasca, nei paesi in cui mi reco in vacanza d’estate: è proprio piccolo il mondo, un colpo di scena umano molto bello, perché in pochi minuti mi racconta la sua vicenda di insegnante immigrato che incontra sulla sua strada degli “angeli” che lo accompagnano. La ragazza che lo aiuta a trovare casa inviandolo dalla sua nonna, la quale, dopo una iniziale diffidenza, lo accoglie cucinandogli e stirandogli i vestiti per un anno; il preside che capisce il suo disagio e lo fa stare a scuola fino al tardo pomeriggio per tenerlo impegnato; e poi tanti altri incontri che per 13 anni lo hanno portato in molti altri paesi delle valli dove, dice, “ho sempre trovato colleghi e alunni accoglienti”. E poi don Milani: qui il colpo di scena è rappresentato dal racconto dei suoi ex alunni delle scuole di Calenzano e di Barbiana. Erano loro, in carne ed ossa, ad incarnare la memoria viva di un prete che per molti ha rappresentato una figura insuperabile di educatore, un uomo di chiesa di cui molti insegnanti, anche non credenti, si sono detti discepoli: la “Lettera ad una professoressa” ha decisamente precorso i tempi, verrà poi il ‘68, a suo modo, ad adottarlo come testo di riferimento. Invece, per stare maggiormente al nostro ambito ecclesiale, “Esperienze pastorali” è il testo per eccellenza che esprime il pensiero, l’innovazione dello sguardo di don Milani. Quando sono ad ascoltare le testimonianze ho tra le mani il testo, lo apro a caso e mi imbatto in una denuncia di alcune liturgie dove non c’è nulla di sorprendente, di inatteso, perché ripropongono stancamente, da secoli, gli stessi gesti: se tutto il libro è così, mi dico, val la pena leggerlo e assaporarlo. Forse non ci immaginiamo cosa significhi scrivere un testo così prima del Concilio: infatti da Roma, quando fu pubblicato, arrivò un intervento, tramite una comunicazione della Congregazionedella dottrina della fede all’allora arcivescovo Ermenegildo Florit, poi pubblicata sull’Osservatore Romano, in cui si invitava a «ritirare dal commercio il libro e di non ristamparlo o tradurlo». Nell’aprile dello scorso anno, su sollecitazione del Papa, è caduto ogni divieto! Fortunatamente già prima la pubblicazione era comunque proseguita e il testo era diventato un riferimento anche per il rinnovamento della pastorale e della teologia pastorale. Insomma, anche da questi incontri-racconti,  un momento di speranza per una chiesa che respira e fa respirare ( un libro di qualche anno fa di un laico impegnato da sempre nella chiesa e di un insegnante di storia della chiesa descriveva la chiesa italiana, con titolo emblematico: “Manca il respiro”). Ci avviamo alle conclusioni, non prima di una altro colpo di scena, molto personale, che accenno solamente per mantenerlo nell’ambito dello scambio fraterno e riservato: passo la sera a raccogliere il racconto di un amico, ferito per il trattamento subito nella Chiesa, ma che non ha perso la speranza… di più non si può dire.
Eccoci al venerdì, orecchie attente a quanto viene detto. Partono le relazioni conclusive. Nella sala assembleare si possono commentare le relazioni conclusive attraverso l’app del convegno, e lì si raccolgono gli umori della sala, termometro per la condivisione delle conclusioni. La prima, sulla via dell’Uscire, personalmente credo sia stata la migliore, forse anche facilitata dall’essere il verbo più usato dal Papa e infatti viene accolta con approvazione; la seconda, la via dell’Annunciare, è quella che riceve la migliore accoglienza, la relatrice sa comunicare con passione la sintesi dei lavori e tutti si sentono ben rappresentati; la terza, la via dell’abitare è quella più complicata a livello comunicativo, il relatore vuole usare delle slide che non partono o non sono in sincronia con quanto dice: insomma, un po’ di delusione sia per i contenuti che per le modalità; la quarta, la via dell’educare, è la peggiore, ripropone dei cliché sull’educazione ormai superati, sull’app compaiono molti commenti di chi si chiede in che gruppi siano state dette quelle cose, nemmeno il tono di voce della relatrice sprizza entusiasmo, si salva perché alla fine la via è quella più conosciuta e, insieme alle altre, può raccogliere forti stimoli (altrimenti rischiava di finire come negli altri convegni: a Verona una delle conclusioni è stata fortemente e rumorosamente contestata, a Palermo addirittura il gruppo dei giovani l’ha rifiutata ed è stato convocato un mese dopo per approvare un altro testo); la quinta, la via del trasfigurare ha saputo far sognare, attraverso il linguaggio della liturgia, il potere trasformante dell’incontro con il Signore.
Toccava al card. Bagnasco raccogliere i frutti del convegno e rilanciare. Le attese erano diversificate, qualcuno addirittura si chiedeva se avevano senso dopo l’intervento del Papa. “Radio convegno”, quel sottofondo di notizie vere o false che girano in questi appuntamenti, dicono di un incontro serale tra i moderatori, la giunta che ha preparato il convegno, i 5 relatori finali con Bagnasco un po’ teso, sembra che la sua impostazione sia molto classica e, come si dice, con il freno a mano tirato. All’incontro sono rappresentate molte diocesi italiane, per cui la voce fa in fretta a raggiungere la maggior parte di delegati. E qui ci sono almeno tre colpi di scena nella relazione conclusiva: Bagnasco per la maggior parte del suo discorso non evoca nemici da cui difendersi; ad un certo punto parlando di bel lavoro sinodale dice che però bisogna passare dall’idea alla prassi, avere delle modalità di lavoro concrete che dicano la sinodalità incarnata; richiama ai vescovi la loro responsabilità nel permettere alla chiesa di essere in uscita, responsabilizzandoli e chiedendo a noi laici scusa se a volte questo non avviene. Lo fa, e questo è un altro colpo di scena, commuovendosi più volte! C’è poi un ennesimo colpo di scena, l’indicazione di un modello di vescovo che ha sognato questa chiesa in uscita, un modello di vescovo che ha incarnato con il suo stile e le sue scelte quanto Francesco ci sta dicendo: è il card. Carlo Maria Martini! Qui è risuonato l’applauso più fragoroso e prolungato del convegno, un applauso che non voleva spegnersi, ma si rafforzava sempre più. Purtroppo, ma questo è il destino dei profeti, due episodi non corrispondono al sentimento dell’assemblea e vanno contro la memoria di Martini: sull’app del convegno dopo l’applauso è apparso il seguente messaggio “il sogno di Martini si avvera in questa assemblea” e subito dopo un messaggio di commento “bhe, allora siamo a posto…”; l’altro è che il ricordo di Martini non c’è nel testo ufficiale di Bagnasco, ma trovate su YouTube il video del discorso. L’ultimo pranzo è condito con commenti soddisfatti dei lavori  e delle conclusioni: il Papa ha dato una energia e uno slancio ai lavori e i delegati lo hanno recepito, adesso il lavoro tocca a tutte le chiese locali, un lavoro da svolgere nella libertà dello Spirito, con la voglia di osare delle strade nuove, contrassegnate dal desiderio dell’incontro.

La sera di venerdì è poi successo quello che tutti abbiamo purtroppo visto, a Parigi. Allora, ed è il colpo di scena conclusivo, vi lascio con le parole che nella mattina di Giovedì sono risuonate nell’incontro interreligioso da parte di Izzedin Elzir, Imam di Firenze e presidente dell’UCOII (Unione Comunità Islamiche d’Italia), anche di questo intervento trovate il video su YouTube; vi riporto solo alcuni stralci.
Con il dialogo interreligioso vogliamo scoprire le radici di ciascuno, non annullarle; il dialogo ci deve essere non tra teologie, ma tra gli uomini e le donne di ogni cultura e religione; possiamo andare avanti solo insieme, non da soli e con diverse velocità; come ha detto il Papa, dobbiamo essere umili nel dialogo, perché dobbiamo aiutare ciascuno ad essere se stesso, non a convertire gli altri e così costruiremo un dialogo responsabile e coraggioso.
Sentire queste parole da un Imam è forse tra i frutti più belli che raccolgo da questa esperienza fiorentina soprattutto dopo i fatti di Parigi, che confermano la necessità che la Chiesa percorra le 5 vie proposte dal convegno con la speranza che in Gesù ogni uomo possa trovare l’immagine dell’uomo vero: umile, disinteressato, beato.

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