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LE MAPPE DEL LAVORO EDUCATIVO

4 Feb 2016 - 18-19enni & GIOVANI, ADOLESCENTI, BLOG - Pensieri & Parole, BLOG di Christian CANZIANI, PREADOLESCENTI, Redazionali del Giovedì (, , , , , , , , , )

LE MAPPE DEL LAVORO EDUCATIVO

“Parlare di Cristo, nel nostro lavoro, è un valore aggiunto, ma è strumento o fine?”

di Christian CANZIANI

04.02.2016 – Talvolta ci si confonde e si scambia un progetto educativo con l’educazione: una mappa entro cui trovarvi un mandato, una situazione analizzata e delle possibili strade percorribili viene scambiata con l’esecuzione di essa calata in una precisa tessitura fatta da occasioni e relazioni più o meno significative.
Questa mappa deve essere seria: né ideologica, né che tenda al basso-profilo e alla riduzione del danno. Questa scrittura deve essere studiata, pensata e costruita attorno a un reale bisogno superabile o, meglio, a una domanda raccolta e che può essere risposta.
Quante volte nelle nostre realtà educative falliamo?
Il fallimento, spesso, lo identifichiamo con la nostra inadeguatezza come strumenti eppure se, nel nostro cuore, sappiamo di aver fatto tutto il possibile, non cadiamo in quello stato simil-comatoso che ne deriva da frustrazioni accumulate. E dobbiamo, anzi, dobbiamo voler ammettere di aver sbagliato. Per migliorarci e per ripartire proprio da quel punto.
Se entriamo nello specifico del progetto fallito, ci accorgiamo che gran parte delle colpe ricadono su un bisogno che non è stato analizzato per bene e che ha creato una mappa distante anni luce dalla realtà.
Giocando con le metafore, possiamo ricordare come i geografi si siano distanziati dalle forme artistiche per essere sempre più scienziati, venendo poi successivamente sostituiti da macchinari come i satelliti o, nelle peggior delle ipotesi, da sterili telecamere che fotografano centimetro per centimetro sopra una banale automobile.

Ma distanziarsi da forme artistiche per cadere in rigide griglie matematicamente strutturate può far bene alla creazione di mappe? Forse può aiutare: una fotografia del mondo obiettivamente ci aiuta a vedere meglio “come se fossimo lì”, ma difficilmente potremmo cogliere il punto di vista di chi ha incaricato lo scatto: cosa voleva farci vedere in realtà?
Noi che ci occupiamo di educazione siamo quindi chiamati a creare una mappa, esplicitando la motivazione che ci ha spinti a crearla proprio in quella maniera, cercando di cogliere anche le sue sfumature che, altri, potrebbero definire “errori di stampa”. Mi viene da ricordare come, navigando con un noto sito di mappatura on-the-road, talvolta viene fotografato per sbaglio il fenomeno del paese che, correndo in bicicletta, viene catturato da quell’occhio informatico, creando una sorta di pubblicità indiretta al sito che poi, comunque, lo ha “inglobato”: è stata una delle prime volte in cui ho usato il comando del pc per ingrandire una foto e provare, come hanno fatto molti, a riconoscerlo!
In questa maniera, la mappa che serve per aiutare a trovare un indirizzo stradale, una casa o un incrocio diventa qualcos’altro: un passatempo.
E così, come in passato, qualcosa che nasce per informare e creare conoscenza diventa arte: il mondo disegnato diventa tappezzeria geografica, come l’indicazione della strada diventa fotografia che cattura l’attimo (più o meno imbarazzante).
Quante volte nei nostri progetti, le mappe del lavoro educativo, non ci fermiamo solo all’educare in senso stretto ma creiamo legami, amicizie, momenti di gioia e aneddoti impensati?
È la forza della complessità e la pedagogia ci permette di legare ciò che abbiamo (o che hanno) teorizzato e scritto con la sua esecuzione nel nostro tempo, tenendo presenti le possibili conseguenze più o meno preventivate e/o sperate.
Essere pedagogici significa, quindi, non cadere in deliri maniacali o di onnipotenza, ma significa trovarvi la giusta collocazione tra un bisogno reale, la sua possibile risposta ed il tragitto che dovrà essere vissuto in tutte le sue venature.
Nel 2016 sembra, invece, che queste mappe debbano essere quasi un proprio biglietto commerciale da visita: “in base a questo mio progetto, ti dimostro le potenzialità della mia proposta affinché possa essere scelta o affinché esprima la mia bravura innegabile rispetto alla concorrenza”.
In questo caso, l’educazione non risponde più al bisogno più o meno palesato ma diventa un vestito da celebrare al miglior gala di beneficienza. In questo caso, educare non sembra più essere un accompagnamento strumentale verso chi chiede tale servizio, ma cade in malattie sociali preoccupanti: la violenza, l’abuso e lo sfruttamento.
Secondo il dizionario Devoto-Oli, per “violenza” si intende “un’azione esercitata da un soggetto su un altro in modo da costringerlo ad agire contro la sua volontà”; con “abuso” richiama un “uso eccessivo, illecito o arbitrario”; e lo “sfruttamento”, in chiave negativa, “un vantaggio personale ingiustamente acquisito utilizzando le iniziative o le capacità altrui”.
Senza cadere nella ricerca della perfezione, quante volte ci siamo ritrovati ad agire “perché devo raggiungere le finalità o gli obiettivi preposti” dimenticandomi le storie, le fatiche e i colori delle persone che sono riuscito a coinvolgere? Quante volte pur di raggiungere le finalità e gli obiettivi ho praticato violenza, abuso o sfruttamento delle persone coinvolte?
Nel nostro campo, siamo chiamati ad essere testimoni di un qualcosa di luminoso: La Parola che si fa Luce per i passi. Spesso, per i passi di chi, volontariamente, forzatamente o per caso ci è accanto.
Parlare di Cristo, nel nostro lavoro, è un valore aggiunto, ma è strumento o fine? Certamente ci permettere di correggere il tiro, di tornare con i piedi per terra, di riscoprire che Lui ha donato la vita per tutti noi e non solo per chi è rimasto fino all’ultimo: per tutti. Tante volte, ci scoraggiamo, ci sentiamo soli, pensiamo di essere caduti in un meccanismo automatizzato: partire da Cristo, rifarsi a Cristo e cercare di far conoscere Cristo ci permette di ritrovare pace, speranza e amore. Nonostante tutto.
Parlare di Gesù come uomo, esempio, amico e maestro, ci permette di non fermarci alla riduzione del danno o alla mera assistenza di chi ci è a fianco: veniamo messi in un movimento, insieme a lui o a lei, verso qualcosa che sarà sicuramente nuovo.

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